COVID-19: effetti sui contratti di locazione
Gli effetti della normativa emanata per fronteggiare la pandemia COVID-19 si ripercuotono anche sui contratti di locazione commerciale
Attualmente, l’emissione dei provvedimenti in vigore hanno comportato per l’intero territorio nazionale le limitiziani che si possono riassumere come segue:
- gli spostamenti delle persone in ingresso, in uscita o anche all’interno del territorio sono consentiti solo per comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità o per motivi di salute;
- sono sospese tutte le attività commerciali al dettaglio, fatta eccezione per le attività di vendita di generi alimentari, per le farmacie e parafarmacie, per i tabaccai per le edicole e pe i venditori di certi generi di prima necessità; la norma si applica sia a esercizi di vicinato sia nell’ambito della grande e media distribuzione;
- sono sospese tutte le manifestazioni organizzate, nonché gli eventi in luogo pubblico o privato (…) quali, a titolo d’esempio grandi eventi, cinema, teatri, pub, scuole di ballo, sale giochi, sale scommesse e sale bingo, discoteche e locali assimilati; nei predetti luoghi è sospesa ogni attività;sono sospese le attività di ristorazione e bar;
- sono sospese le attività di palestre, centri sportivi, piscine, centri natatori, centri benessere, centri termali, centri culturali, centri sociali, centri ricreativi;
- viene raccomandato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte a domicilio.
Le misure di limitazione della libertà personale di circolazione sono previste per tutelare la sicurezza nazionale (il diritto alla salute dell’intera cittadinanza e la riduzione delle possibilità e/o cause di contagio dovute all’acclarato stato di pandemia) ma allo stesso tempo hanno un impatto rilevante sugli esercenti delle attività commerciali che devono necessariamente rimanere chiuse.
Minore, ma comunque molto significativo, è anche l’impatto prodotto indirettamente sulle attività coinvolte dalle limitazioni imposte dalle restrizioni alla circolazione degli avventori e clienti e delle modalità di fruizione dell’immobile.
Generalmente, e salvo i casi di proprietà dell’immobile presso il quale viene eserciata l’attività, la disponibilità dei locali è acquisita mediante la conclusione di contratti di locazione o di affitto di ramo d’azienda.
Gli esercenti di queste attività si domandano, in questo frangente tanto incerto, se possano invocare, in assenza di pattuizioni specifiche, una regola di portata generale o un principio di FORZA MAGGIORE per ottenere la sospensione del pagamento dei canoni di affitto o di locazione
Contrariamente a quanto previsto nella disciplina contrattualistica internazionale, il nostro sistema giuridico non conferisce un autonomo e generalizzato rilievo alla forza maggiore come causa legittima di sospensione di una prestazione contrattualmente dovuta e, in ipotesi come quella in esame, si dovranno applicare le previsioni del codice civile dettate in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazione per cause non imputabili alle parti.
In particolare, con riferimento alla sorte delle singole obbligazioni, si deve esaminare il disposto l’art. 1256 del codice civile, il quale prevede:
- l’obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa definitavemente impossibile;
- in ipotesi d’impossibilità solo temporanea, il debitore, finché perdura l’impossibilità, non sarà responsabile del ritardo nell’adempimento, ma anche in tal caso l’obbligazione si estingue se l’impossibilità si protrae fino a quando il debitore non potrà più essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione, ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla.
Con riferimento agli effetti complessivi nell’ambito di un contratto con prestazioni corrispettive, devono tenersi a mente:
- l’art. 1463 del codice civile, il quale prevede che la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non possa chiedere la controprestazione, e debba restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito;
- l’art. 1464 del codice civile, ai sensi dela quale, quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della prestazione da essa dovuta, e può recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.
Non vi è dubbio che l’epidemia COVID 19 ed i provvedimenti emanati per il suo contenimento abbiano i requisiti di imprevedibilità ed inevitabilità codificati dalla giurisprudenza impegnata ad analizzare gli eventi che rendono l’inadempimento impossibile
Le previsioni dei vari DPCM che si sono susseguiti nel corso del mese di marzo 2020 costituiscono, indubitabilmente, un c.d. “factum principis” ovvero un provvedimento dell’Autorità che incide in modo inevitabile e radicale sulla realizzabilità del regolamento negoziale e, salvo l’ipotesi di contratti stipulati quando già l’estensione del contagio al territorio nazionale era già evidente, la loro adozione sicuramente non era prevedibile al momento della stipulazione del contratto.
Più problematico, invece, tradurre i divieti disposti dal Governo in termini di impossibilità di una prestazione tipica del locatore o del conduttore, quantomeno nei contratti di locazione commerciale.
Provvedimenti che impediscano la possibilità di svolgere lecitamente l’attività aziendale fanno venir meno l’utilità funzionale che costituisce il “cuore” della prestazione contrattuale dell’affittante, rendendola di fatto impossibile.
Per contro, i divieti non incidono sulla prestazione principale del locatore, ovvero la messa a disposizione di locali.
I divieti in analisi, infatti, non hanno alcuna attinenza all’immobile in cui si svolge l’attività, alle sue caratteristiche o alla sua idoneità all’uso pattuito; essi, piuttosto, incidono direttamente od indirettamente sull’attività del conduttore in modo del tutto indipendente dalla prestazione del locatore.
Del pari, in termini di rigorosa causalità, non può considerarsi scontato che la chiusura temporanea dell’attività (e a maggior ragione l’incidenza indiretta, per le attività non sospese, sulla sua redditività) renda radicalmente impossibile la prestazione principale del conduttore consistente nel pagamento del canone di locazione e delle spese accessorie.
Non è impossibile la prestazione che possa essere adempiuta con la normale diligenza e che, in sede di giudizio, potrebbe non essere ritenuta giustificazione sufficiente la mancanza (o, peggio ancora, la mera riduzione) di ricavi limitata a qualche settimana
È quindi necessaria una ricostruzione in termini più ampi della nozione di impossibilità, nozione che sia in grado di svincolarsi dalle singole prestazioni dedotte in contratto.
Sul punto si richiama la ricostruzione, di ben più ampio respiro, proposta da una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. III, 10 luglio 2018, n. 18047): la quale ha rigettato un ricorso contro una sentenza di appello in cui veniva riconosciuto ad una coppia il diritto ad ottenere da un tour operator il rimborso di un pacchetto di viaggio di cui non avevano potuto godere per la sopravvenuta grave infermità di uno di essi.
Anche in tal caso le prestazioni tipiche del contratto (il viaggio ed il pagamento del relativo corrispettivo, peraltro già avvenuto) erano e restavano entrambe astrattamente possibili. Ciò che era stato reso impossibile dalla circostanza inattesa e sopravvenuta (l’infermità di uno degli acquirenti del pacchetto) era la possibilità fruizione della prestazione della controparte.
La richiamata sentenza ha quindi affermato il principio che “l’impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione”.
La sentenza, in esame, fa leva sulla valorizzazione, ai fini della qualificazione dell’impossibilità sopravvenuta, della causa del contratto, intesa come lo scopo pratico del contratto costituente sintesi degli interessi che il negozio è concretamente diretto a realizzare.
Vengono così in rilievo, i motivi che hanno indotto le parti a stipulare il contratto e le finalità da esse perseguite, siano essi condivise o riferibili ad una sola parte ma dall’altra chiaramente riconoscibili: laddove un evento non prevedibile e non imputabile renda non più perseguibili le finalità condivise o riconoscibili che hanno motivato le parti a stipulare il contratto, sostanziandone la causa in concreto, si verifica pur sempre un’impossibilità della prestazione, con conseguente applicazione della relativa disciplina.
In conseguenza della pandemia COVID-19 è quindi ben possibile argomentare che l’impossibilità sia sostanziata dal venir meno, per effetto delle sospensioni disposte, della possibilità del conduttore di fruire della prestazione del locatore
Individuato questo principio generale, bisogna capire come esso sia applicabile nel caso in cui, come quello attuale, l’impossibilità della prestazione sia solo temporanea in un contratto per sua natura ad esecuzione continuata, come la locazione e l’affitto.
A tal riguardo si ritiene opportuno richiamare i principi interpretativi che emergono dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia di rapporti di lavoro subordinato, nel caso in cui vengano meno, per circostanze esterne ed imprevedibili, le condizioni per la fruizione da parte del datore di lavoro della prestazione del lavoratore.
In particolare Cassazione Civile Sezione Lavoro del 16 giugno 2003, n. 9635 ha affermato che la sospensione unilaterale del rapporto di lavoro “quando quest’ultima sia divenuta inutilizzabile non nell’aspetto economico o per deficienze di programmazione, di previsione o di organizzazione aziendale, bensì per un fatto sopravvenuto non prevedibile, il datore di lavoro non incorre in responsabilità per l’unilaterale sospensione da lui disposta e, in particolare, non è tenuto al pagamento delle retribuzioni per il periodo di sospensione”.
Per l’applicazione di analogo principio in materia di locazione, si richiama una risalente pronuncia della Pretura di Napoli del 15 gennaio 1992, secondo la quale “in tema di rapporti di locazione si deve ritenere che solo la distruzione dell’immobile o la perdita delle caratteristiche essenziali all’uso cui lo stesso era destinato comportino la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta definitiva della prestazione del locatore. Deve, al contrario, ritenersi che il mero danneggiamento dell’immobile non impedisca la prosecuzione del rapporto, che resterà sospeso durante il tempo occorrente per l’effettuazione delle riparazioni indifferibili essendo queste ultime causa di impossibilità solo temporanea della prestazione del locatore”
Si può concludere che conduttore ed affittuario, eventualmente chiamati in giudizio per il pagamento dei canoni dovuti nel periodo di durata dei provvedimenti di sospensione della loro attività, e limitatamente alle attività oggetto di sospensione, possano legittimamente invocare a propria difesa le norme relative all’impossibilità sopravvenuta a giustificazione dell’inadempimento
Evidentemente, sarebbe più complesso avvalersi di tale difesa nel caso di attività sulle quali i provvedimenti governativi incidano solo indirettamente, quali gli esercizi commerciali che rientrano nelle eccezioni alla sospensione generalizzata o, più in generale, quelle che si svolgano in uffici o fabbriche, poiché in tal caso, infatti, sarà più difficile affermare che sia venuta radicalmente meno la possibilità di fruire della prestazione del locatore.
Analogo discorso vige per gli immobili locati da uso abitativo, dal momento che il conduttore fruisce del bene e non sussistono ragioni per veder sospesa la prestazione in favore del locatore.
A tal fine il debitore inadempiente dovrà “attrezzarsi” per fornire la prova rigorosa che l’applicazione delle disposizioni ha determinato l’impossibilità di fatto di poter fruire della prestazione del locatore.
Questo potrebbe essere ancor più difficile per gli esercizi che siano rimasti aperti, così fruendo della disponibilità dell’immobile, sia pure in circostanze che hanno inciso pesantemente sulla redditività del suo utilizzo.
Tali categorie, tuttavia, potranno invocare una riduzione del canone argomentando, ad esempio, con la difficoltà di applicazione delle misure relative al mantenimento delle distanze di sicurezza tra i clienti in relazione alle caratteristiche intrinseche dell’immobile.
Anche per gli immobili adibiti ad uso ufficio di deve partire dal presupposto che per un ampio numero di attività amministrative e professionali il ricorso allo smart working ne ha comportato di fatto lo svuotamento, rendendo alquanto limitato il beneficio della loro detenzione in virtù del rapporto locativo.
E’ però altrettanto vero che:
- in molti casi il mancato utilizzo è solo parziale, continuando a persistere funzioni strutturalmente insediate negli uffici medesimi;
- sotto il profilo di c.d. giustizia sostanziale, un giudice sarà meno incline a sposare le ragioni di quegli operatori che siano comunque riusciti ad assicurare la propria operatività tramite lo smart working. In tali casi sarà, probabilmente, più giustificata una domanda di riduzione dei canoni proporzionata al mancato godimento piuttosto che una sospensione “tout court” del loro pagamento.
Un fattore decisivo per la fondatezza del ragionamento che precede sarà quello della durata della crisi e dalla complessiva portata dei suoi effetti sull’andamento dell’economia e sugli affari dei singoli operatori.
La durata della crisi e l’incidenza sulla redditività, saranno inoltre gli elementi da valutare per poter esprimere un giudizio sulla fondatezza e accoglibilità di eventuali richieste di rinegoziazione dei contratti basate sulla minaccia di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta (ai sensi dell’art. 1467 del codice civile) o di recesso per gravi motivi (ai sensi dell’art. 27, della Legge n. 392 del 1978.
Com’è noto, infatti, la ragionevolezza del ricorso a tali norme si fonda su un giudizio di insostenibilità delle condizioni economiche del contratto per effetto dell’impatto significativo, strutturale e perdurante delle circostanze invocate.
Tale norma, che regola l’eccessiva onerosità sopravvenuta, è invocabile qualora l’evento straordinario ed imprevedibile medio tempore occorso, renda la prestazione non impossibile, ma solamente eccessivamente onerosa. Ciò accade, per esempio, e proprio con riferimento al frangente attuale, qualora l’immobile sia stato locato al fine di esercitare un’attività commerciale a contatto con il pubblico ma la stessa sia, per natura e modalità, comunque esercitabile online, seppur con maggiori difficoltà e minori introiti (si pensi ai negozi di vestiario multimarca od ai servizi di ristorazione).
In generale la prestazione può considerarsi eccessivamente onerosa quando, pur non richiedendo la sua esecuzione successiva uno sforzo maggiore di quello richiesto inizialmente, il corrispettivo pattuito per tale prestazione sia diventato medio tempore (per cause imprevedibili) notevolmente superiore rispetto all’attuale valore di mercato della corrispondente prestazione.
A seguito all’epidemia in corso il costo delle locazioni di immobili ad uso commerciale potrebbe diminuire, di talché il canone originariamente pattuito potrebbe risultare sproporzionato rispetto all’effettivo utilizzo del bene attualmente possibile
Ai fini dell’applicabilità della norma la sproporzione dovrà risultare eccessiva, con ciò intendendosi che l’aumento del costo originario della prestazione sia di entità superiore alla normale alea contrattuale, il che – lo si ripete – potrà essere verificato solamente caso per caso.
Dunque, ferma ed imprescindibile la valutazione caso per caso dell’eccessiva onerosità, tale norma legittima il conduttore a chiedere la risoluzione del contratto mediante la proposizione di apposita domanda giudiziale, che può avvenire sia in via principale, sia mediante domanda riconvenzionale formulata nel giudizio promosso dall’altro contraente per l’adempimento (o la risoluzione per inadempimento) del contratto.
Si deve in ogni caso e conclusivamente precisare che a fronte della domanda formulata, il locatore non sarà obbligato a subire gli effetti dell’evento intercorso, potendo evitare la risoluzione mediante l’offerta di modificare equamente le condizioni del contratto in modo da rimuovere l’eccessiva onerosità sopravvenuta e mantenere lo stesso in vita a condizioni nuovamente concordate con il conduttore tenendo conto dell’impatto concreto dell’epidemia.