di Debora Zagami
Il reato violenza sessuale è annoverato tra i c.d. reati odiosi, cioè quelli che suscitano più avversione e repulsione nell’opinione pubblica, per la vigliacca prevaricazione del più forte sul più debole, ma anche per i gravi danni psicofisici che le condotte abusanti possono cagionare alla vittima.
La medesima pena (da 6 a 12 anni di reclusione) prevista per chi costringe un’altra persona a compiere o a subire atti sessuali con violenza, minaccia o abuso di autorità, è applicabile anche a coloro che inducono a compiere o a subire l’atto sessuale approfittando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima, o creando appositamente una situazione di inganno (l’autore del reato si fa credere un’altra persona).
Sia che si tratti di una condotta messa in atto con la forza (violenza o minaccia) o perpetrata nelle subdole forme dell’induzione (abuso della vulnerabilità o inganno) il delitto che viene contestato è quello di violenza sessuale, e le conseguenze di una tale accusa producono effetti talmente devastanti sul piano individuale e sociale che tutti gli operatori del diritto debbono garantire la massima attenzione e discrezione, proprio per evitare la creazione di falsi mostri da sbattere in prima pagina.
La vittima è sollecitata a rivivere momenti che vorrebbe soltanto dimenticare, ciò di per sé solo è elemento che genera sofferenza. La persona accusata deve difendersi da fatti che, molto spesso, hanno come unica fonte probatoria soltanto il racconto della persona che accusa.
Partendo dall’assunto che il processo penale ha la funzione di accertare la sussistenza di un fatto mediante la dimostrazione, in giudizio, dell’ipotesi accusatoria, è facile comprendere che un processo per violenza sessuale si tradurrà – perlopiù – nella serrata e approfondita verifica dell’attendibilità delle versioni contrapposte, da compiere con tutti gli strumenti offerti dal contraddittorio giudiziario.
Non di rado, purtroppo, sono emerse strumentalizzazioni da parte di sedicenti vittime.
Si rivela quindi fondamentale utilizzare ogni metodologia esistente (forense, psicologica, personologica ecc.) per fare emergere eventuali incongruenze e porre il Giudice nella condizione di formarsi un convincimento completo al momento di valutare la fondatezza delle accuse.
In vicende connotate da particolare gravità (si pensi agli abusi sessuali commessi nei confronti di minori che non abbiamo compiuto i dieci anni, per i quali è prevista la reclusione dai 12 ai 24 anni) assistiamo a dei veri e propri cold case, nei quali la persona accusata, magari a distanza di oltre dieci/quindici anni dai fatti, è chiamata a dare conto delle proprie condotte, con le intuibili difficoltà nel reperire prove a discarico.
L’avvocato difensore, in questi casi estremi, ma non rari, diventa protagonista di una sorta di viaggio nel tempo, calandosi nel passato di un’esistenza ormai quasi estranea anche per chi l’ha vissuta in prima persona, e cercando di portare alla luce ogni più piccolo dettaglio dal quale poter inferire il reale svolgimento dei fatti.
I rischi per chi viene accusato di un tale reato non si limitano alla perdita della libertà in caso di applicazione della carcerazione in via cautelare, o alle conseguenze che una tale accusa può produrre in ambito lavorativo, familiare e sociale.
Il rischio peggiore è di rimanere schiacciati dal pregiudizio.
Non avere la forza di reagire di fronte ad una enormità del genere e non tentare neppure di costruire una difesa attiva, perdendo in tal modo l’unica speranza di fare breccia nel pensiero di chi è chiamato ad esprimere il proprio giudizio di assoluzione o di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.